COVID-19 e inquinamento atmosferico: abbiamo abbastanza dati per stabilire un nesso causale?
10 aprile 2020
10 aprile 2020
Il metodo scientifico aiuta a discernere tra verità e informazioni parzialmente corrette o, in alcuni casi, fake news.
By Toni Fanelli
In questi tempi di frenetica condivisione di notizie sul Coronavirus, vorrei lanciarvi una provocazione intellettuale sottoponendovi questo lavoro che cerca di mettere in relazione “l’inspiegabile” evoluzione dell’epidemia di Coronavirus nel nord Italia con l’inquinamento dell’aria tipico di questa regione. L’articolo si intitola “POSITION PAPER - Relazione circa l’effetto dell’inquinamento da particolato atmosferico e la diffusione di virus nella popolazione” e porta le firme di alcuni esperti di Università italiane. In questo periodo di emergenza da Coronavirus, informarsi non è mai stato così facile e così difficile allo stesso tempo. Come possiamo distinguere la verità da una fake news o da un’informazione parzialmente corretta?
Molti dei contenuti che leggiamo, soprattutto online, sono pensati ed elaborati per impressionarci, ma a volte non è facile capire la loro veridicità e il loro scopo divulgativo. Più che i bot, sono proprio gli esseri umani a essere il primo canale preferenziale per la diffusione differenziale di falsità e verità. In un mondo iper-connesso, si sente quasi la pressione di dover condividere un contenuto sui social media sulla base di un titolo accattivante o una lettura veloce. Sempre meno prendono il tempo (e la pazienza) per analizzare criticamente ciò che ci viene continuamente somministrato dai social media. Proviamo a fare insieme una riflessione e sviluppare degli “anticorpi” contro le fake news o, semplicemente, contro informazioni non ancora accertate.
Ed ecco che, pur riconoscendo a questo elaborato una capacità mediatica molto efficace - anche grazie all’accreditamento di svariati ricercatori universitari – se lo analizziamo attentamente non possiamo dimostrarne l’integrità incondizionata delle deduzioni generate. Purtroppo, anche questo “prodotto social” si concede ammiccamenti verso soluzioni prestabilite, utilizzando come metodo di verifica la facile (e quindi spesso fallace) correlazione fra ipotesi, forse verificate, ma certamente non coerenti con la circostanza studiata. Più che di fronte ad una fake news costruita in maniera dolosa, ci teniamo a evidenziarlo, ci troviamo di fronte ad una deduzione ancora povera di tutte le dovute conferme scientifiche. Anche questo elaborato, quindi, nonostante la sofisticatezza e la verosimiglianza con un vero e proprio lavoro scientifico, è incappato in quella trappola che gli scienziati cognitivi chiamano euristica della disponibilità: una scorciatoia mentale che porta le persone a stimare la plausibilità di un'affermazione basandosi sugli esempi più immediati che vengono in mente. Se avrete pazienza, nella sintesi che segue cercherò di dimostrarvi perché anche in questo lavoro, tutto sommato ben imbastito, si annidi (forse solo più cripticamente di altre produzioni) l'erronea concatenazione di ragionamenti che giungono ad una conclusione attraverso premesse improprie.
L’articolo inizia con l’ipotesi che correla l’incidenza dei casi di infezione virale con le concentrazioni di particolato atmosferico PM10 e PM2,5. Ecco cosa dicono gli autori: “La relazione tra i casi di COVID-19 e PM10 suggerisce un’interessante riflessione sul fatto che la concentrazione dei maggiori focolai si è registrata proprio in Pianura Padana mentre minori casi di infezione si sono registrati in altre zone d’Italia”. In particolare, si sostiene che il PM10 funzionando da carrier, ovvero da vettore di trasporto, per molti contaminanti chimici e biologici (inclusi i virus) ed essendo presente in concentrazione particolarmente elevata in Lombardia, può aver favorito un più elevato tasso di diffusione del virus. Così si spiegherebbe la percentuale “anomala” di contagi registrata nella nostra regione. A seguire, cercando di dare consistenza alle premesse sostenute, gli autori riportano un po’ di letteratura scientifica. Tutta la bibliografia riferita ha come filo conduttore la diffusione dei virus attraverso il particolato atmosferico, oppure, l’incidenza di alcune malattie legate alla presenza di queste particelle di aerosol atmosferico in concentrazioni piuttosto elevate tipiche delle aree inquinate: (1) Ciencewicki J et al., 2007; (2) Sedlmaier N., et al., 2009; (3) Despres V.R., et al., 2012; (4) Chen P-S., et al., 2010; (5) Ye Q., et al., 2016; (6) Chen G., et al., 2017; (7) Peng L., et al., 2020.
Il paper termina con queste conclusioni: “I ricercatori sollecitano per il dopo emergenza sanitaria misure restrittive di contenimento dell’inquinamento”. Non c’è che dire, questo gruppo di ricercatori è senz’altro animato dai migliori propositi tanto da proporre misure di contenimento per l’inquinamento che, come definitivamente assodato da moltissimi studi, ha un’incidenza primaria sullo stato di salute delle popolazioni urbane e periurbane. Ma prima di saltare alle conclusioni e vedere qual è stato il processo deduttivo che ha portato alle soluzioni delle ipotesi sin qui riferite, vi anticipo che le ricerche a cui l’elaborato fa riferimento hanno complessivamente due importanti limiti: sono studi che sovente ammettono – per diversi motivi – già un limite nel loro stesso riscontro scientifico, oppure, trattano soggetti vicini all’argomento ipotizzato ma, allo stesso tempo, piuttosto lontani da non garantirne una piena correlazione.
Il primo lavoro, ad esempio, riferisce già nell’abstract che: “sebbene una serie di studi indichi associazioni tra esposizione agli inquinanti atmosferici e aumento del rischio di infezioni da virus respiratori, i potenziali meccanismi che mediano questi effetti sono in gran parte inesplorati. Pertanto, sono necessari ulteriori studi, […]” Inoltre, il lavoro di Ciencewicki J. fonda tutte le sue valutazioni sulle infezioni respiratorie nei bambini di età inferiore ai 15 anni; una fascia di età della popolazione appena sfiorata dal rischio per Coronavirus. Nessun chiarimento viene dato, quindi, per spiegare anche una minima correlazione dimostrabile fra l’alterazione immunitaria che i giovani ospiti manifestano a causa di una prolungata esposizione ai comuni inquinanti atmosferici e il numero di persone infettate dal virus Sars-CoV-2 (nome da distinguersi da Covid-19 che è invece il nome della malattia) che, tra l’altro, non colpisce quasi mai sotto l’età adolescenziale e che, complessivamente, non fa differenza fra popolazioni poste all’interno o al di fuori delle aree urbane e periurbane della Pianura Padana. Inoltre, non è ben chiaro perché il lavoro del gruppo italiano non prenda in considerazione anche gli altri inquinanti (come NO3, O3 e scarico diesel) relazionati anch’essi nello studio di Ciencewicki J. e presenti in considerevoli concentrazioni nell’atmosfera lombarda.
Il secondo lavoro menzionato è quello di Sedlmaier N. Questo prende come modello per la trasmissione di aerosol, polveri sottili generate da feci di pollo arricchite con un sottotipo (H10N7) del virus dell'influenza aviaria AIV, per dimostrare come, attraverso l’emissione di polveri PM2.5 e PM10, sia possibile la dispersione dei virus. Analizzando a fondo l’interessantissima sperimentazione realizzata per questo lavoro, però, non si può fare a meno di notare che sono tutte considerazioni ottenute in condizioni controllate in laboratorio, utili per riprodurre il modello di dispersione del particolato nelle fattorie di allevamento aviario, ma molto distanti dalle svincolate condizioni ambientali della Pianura Padana.
La terza recensione presa come riferimento è quella di Despres V.R. Questa delinea le attuali conoscenze sulle principali categorie di particelle primarie di aerosol biologico PBAP (costituite da: batteri e archei, spore e frammenti di funghi, polline, virus, alghe e cianobatteri, croste biologiche e licheni e altri come frammenti di piante o animali e detriti) dimostrando l’efficacia dell’aerosol come vettore di microorganismi.
Ma anche in questo caso, ad un’attenta analisi del documento, si nota che il lavoro fornendo una fitta panoramica sui metodi di campionamento e sulle tecniche fisiche, chimiche e biologiche, riferisce quanto le pubblicazioni che rivelano la presenza di virus come PBAP non siano numerose (Gloster et al., 1982; Christensen et al., 1990; Grant et al., 1994; Chen et al., 2008b) e quante ancora - grazie al supporto di altri tre importanti lavori scientifici - siano numerose le mancanze sulla dimostrabilità dell’azione carrier per gli PBAP, fra questi: la mancanza di test universali per il rilevamento di virus; l’impossibilità di rilevare tipologie virali diverse da quelle prestabilite; la difficoltà di standardizzare i fattori ambientali (variazioni di temperatura, umidità relativa, radiazione solare, ecc.) che influenzano l'inattivazione dei virus; l’inefficienza di metodi biologici molecolari per rilevare la variabilità del materiale genetico dei virus (DNA o RNA).
A tutto questo, si aggiungono due considerazioni di Despres V.R., che sembrano contraddire quanto sostenuto dal lavoro italiano. La prima contraddizione è sul trasferimento transcontinentale di aerosol del virus dell'influenza A, dimostrata da Hammond et al. (1989), provando che gli aerosol contenenti virus possono diffondersi in tutto il mondo; proprio il contrario di quanto ritenuto dal gruppo che limita la dispersione del virus nella regione della Pianura Padana. La seconda incoerenza è quella che, valutando la massa totale dei virus in 1 m3 di atmosfera, dimostra quanto la concentrazione di massa virale sia inferiore di circa quattro ordini di grandezza rispetto alla concentrazione totale delle altre masse biogeniche di aerosol (Jaenicke, 2005; Tabella 4). Quest’ultima constatazione, prova che per ottenere una presenza virale sufficientemente importante da poter essere presa in considerazione, le quantità di aerosol biologico dovrebbero essere enormi; cosa che non è riscontrabile nemmeno nell’aria inquinata della Lombardia. Senza proseguire troppo nei dettagli, anche gli altri lavori menzionati dimostrano risultati ottenuti su fattispecie di campioni o condizioni di computazione poco riconducibili alle condizioni lombarde e, comunque, insistono su altre questioni; come sulle incidenze delle affezioni respiratorie in relazione agli agenti inquinanti presenti dell’atmosfera. Tutti questi lavori, infatti, dimostrando un aumento delle forme infiammatorie croniche e/o l’indebolimento delle capacità immunitarie nelle popolazioni sottoposte ad un alto livello di inquinamento, concorrono a confermare quello che universalmente è scientificamente riconosciuto da decenni, ma che con l’incontro primigenio della nostra specie con un agente virale inedito hanno poco a che fare. Riportandovi solo alcune delle incongruenze trovate in questo lavoro, è evidente quanto sia facile cadere nell'erronea concatenazione di ragionamenti intrappolati nei bias cognitivi che imbrigliano - più o meno inconsapevolmente - le menti di tutti noi, fino a farci giungere a conclusioni improprie. Per rispondere al “come fare”, quindi, non basta prendere uno studio scientifico e forzarlo verso la verificabilità di una soluzione. Quello che bisogna fare è quello che fa parte della concezione del metodo scientifico, ossia, osservare la moltitudine di fenomeni che ci circondano e cercare di connetterli in una serie di comprovate valutazioni, senza anteporre nessuna conclusione, nessun obiettivo. Per questo, oggi, tutti i professionisti che lavorano intorno alle tematiche della complessità hanno introdotto nelle loro specifiche competenze i concetti base del metodo scientifico: multidisciplinarietà (uso simultaneo ed inclusivo di più competenze) – reiterazione (il processo di analisi e di interpretazione dei dati, per aggregazione di tipologie correlate di informazioni, in uno schema coerente e replicato in un cammino inesauribile di approssimazioni verso una “verità” attendibile) – falsificabilità (criterio logico anch’esso formulato dal filosofo Karl Popper che, semplificandolo, afferma che se una previsione formulata da un'ipotesi si sia realmente verificata, non vuol dire che essa si verificherà sempre). Proprio sulle tematiche della complessità e sulle discipline che oggi ne sono completamente assorbite potremmo fare presto qualche altro approfondimento.
La calorosa raccomandazione, quindi, è di valutare sempre l’attendibilità della fonte delle informazioni, ma senza mai trascurare anche la relazione che viene posta fra le ipotesi sostenute per risolvere la tesi che si vuole avvalorare. Al di là dei nomi accademici che ci possano influenzare, specie se non siamo esperti, è importante affidarsi a studi accreditati dalla comunità scientifica, oggettivi e provenienti da fonti affidabili e verificabili. Questo, in fondo, è il lavoro dei bravi giornalisti che dovrebbero tutelarci da potenziali “bufale” con il cosiddetto "fact checking", ma che spesso cadono negli stessi tranelli dei propri lettori.